In Sardegna i primi decenni del Seicento sono caratterizzati da una decisa espansione economica e demografica. Il favorevole andamento climatico e le buone annate agrarie, sommandosi ai benefici effetti della riforma cerealicola introdotta da Filippo II, concorrono a determinare l’ampliamento dei seminativi e l’incremento delle esportazioni di grano. Questo periodo di relativo benessere si arresta però col procedere della crisi generale e della guerra dei Trent’anni (1618-1648). L’involuzione economica, innescata dalla sottrazione di risorse importanti dai settori produttivi per destinarle ai fronti di guerra, è favorita da fattori naturali come le invasioni di cavallette e le carestie, ma viene accelerata e resa irreversibile dall’indebitamento pubblico e dalla pressione fiscale. Quest’ultima viene esercitata in modo indiscriminato dalla monarchia iberica allo scopo di finanziare le imprese militari in difesa della supremazia asburgica in Europa.
Al culmine di questo processo di graduale impoverimento, irrompe nell’isola la più catastrofica epidemia di peste registrata in età moderna. Il contagio giunge dalla Catalogna ad Alghero nell’aprile del 1652, imperversa in Sardegna per sei anni e da qui si sposta a Napoli, Roma e Genova. Ad essere devastate saranno, nell’ordine, Alghero, Sassari, Oristano e infine Cagliari, secondo un percorso che segue il movimento di uomini e merci lungo la principale via di comunicazione del Regno. Il prezzo più duro in termini di vite umane è pagato dalle città e dalle aree pianeggianti a spiccata vocazione agricola, dove i contatti e gli scambi tra le comunità, specie nella stagione del raccolto, sono più intensi rispetto alle aree montuose e pastorali dell’interno.
Non avendo preso le misure sanitarie necessarie a impedire la propagazione del morbo, Alghero e Sassari subiscono in pochi mesi la decimazione della popolazione. In mancanza di ostacoli, la peste è così libera di avanzare verso le pianure meridionali: nell’estate del 1652 investe i primi villaggi del Campidano, poi i sobborghi di Oristano e, nonostante l’applicazione di una rigida vigilanza, filtra infine in città. Come avviene di norma nei centri colpiti dal morbo, alle prime notizie di morti sospette i cittadini più facoltosi, nobili e prelati in testa, scappano verso le campagne. Ma aggirare le restrizioni sulla libera circolazione in vigore in tempo di peste suscita il risentimento dei concittadini e gravi problemi di ordine pubblico nelle comunità costrette ad accogliere i fuggiaschi. Ne derivano tumulti popolari e, soprattutto, la proliferazione dei focolai e la sopravvivenza del contagio durante l’inverno. L’anno successivo, infatti, la peste infierisce ancora sull’Oristanese per dirigersi infine verso la capitale del Regno.
Il bilancio finale è catastrofico. Pur in mancanza di precisi dati demografici sappiamo che i morti sono nell’ordine delle migliaia. Come nelle altre aree colpite, anche nelle fertili terre del marchesato si registra un preoccupante diradamento degli insediamenti abitativi e un regresso del settore agricolo. La voragine aperta nel tessuto demografico non avrà modo di colmarsi tanto presto, perché dopo circa un decennio di raccolti di grano scarsi o poco soddisfacenti nel 1680 si registra un’annata agricola disastrosa. La carestia dell’anno successivo è talmente devastante da portare alla morte per inedia un numero di uomini probabilmente maggiore di quelli scomparsi a causa del contagio. Il secolo si chiude pertanto con un saldo demografico largamente passivo, con l’abbandono delle campagne e il regresso delle attività produttive e dell’agricoltura a vantaggio dell’allevamento brado.